domenica 31 gennaio 2010

Il niente affacciato sul vuoto.

La chimera cattoliberale.
Volano sopra le caute reti dell’elusività, le acrobazie verbali dei dotti politologi, intesi a ridurre la cultura del centrodestra all’improbabile miscela di cattolicesimo e liberalismo.
Le reti di sicurezza e di censura sono distese per evitare la caduta del solenne discorso sofistico negli imbarazzanti significati, che soggiacciono all’esangue fonema cattoliberale.
Del centrodestra, peraltro, i martellanti politologi autorizzano a dire qualunque futile cosa, purché non disturbi il forte potere che eroga la confusione. L’untuoso galateo del talk show, d’altra parte, giudica inopportuno e volgare l’intenzione di risalire al significato delle parole in libera uscita dal soffice vocabolario del politicamente corretto.
Con riferimento all’umoristica deformazione della sigla saragatiana (Psli = piselli), si potrebbe dunque argomentare che il pensiero del centrodestra nasce dalla pianta dei piselli. E non lo si affermerebbe senza un’obliqua ragione: la recente storia italiana svela, infatti, la precedente vita nel nutriente baccello di alcuni fra i più eminenti politologi della scuola cattoliberale. Quelli che, in anni non remoti, incensavano l’esegeta di Proudhon, come ultimo luminare splendente sull’albero del socialismo.
Se non che l’ astuzia è vanificata dalla presenza, all’ombra delle cattedre cattoliberali e cattopiselle, di un incontrollato popolo di ermeneuti zelanti, spericolati e al lavoro senza rete.
Lo zelo e l’audacia giocano brutti scherzi. Agli sconsigliati redattori dell’ufficioso “Il Giornale” suggeriscono, ad esempio, di controllare i sacri testi nei quali è giustificato il matrimonio tra la vivente dottrina cattolica e l’affossato pensiero liberale.
Nell’afa dell’agosto, gli avventurosi ermeneuti del “Giornale” hanno tentato di scoprire i pensieri che si celano dietro la soave espressione cattolico-liberale. E nel tentativo hanno addirittura selezionato i componenti di una fantafilosofica squadra da collocare “a monte” del cattoliberalismo.
Risalire a monte, dove purtroppo abitano le difficoltà e le contraddizioni, è una tentazione, alla quale i politologi, al pascolo nelle allegre valli della divagazione televisiva, consigliano di non cedere. Gli accorti registi della destra televisiva, dopo di tutto, conoscono a perfezione il vuoto pneumatico, in cui nuotano le idee della strana coppia costituita dal pensiero cattolico e dall’ideologia liberale.
La candida intrepidezza degli ermeneuti allo sbaraglio nelle colonne del “Giornale” ha, invece, sfidato la memoria storica affastellando, in una radunata surreale, proprio gli autori, San Tommaso d’Aquino, Giambattista Vico e John Locke, che rappresentano, in modo lampante, l’incompatibilità del pensiero cattolico e dell’ideologia liberale.
Costruite nel solco della metafisica tradizionale, le opere di San Tommaso e di Vico hanno, infatti, vivificato e fortificato le verità di ragione sull’esistenza di Dio e sulla sua azione nella storia, mentre Locke ha indirizzato al relativismo e all’apostasia alcune divagazioni intorno al dominio dei sensi sulla ragione e intorno al supremo valore delle utilità.
Sensismo e utilitarismo costituiscono il preambolo di quelle disastrose rivolte contro la metafisica che il beato Pio IX ha puntualmente catalogato nel “Sillabo”.
Quando si esamina il pensiero dei filosofi che hanno interpretato con rigore le due opposte tradizioni, la cattolica e la liberale, appare chiaro che la loro unione costituisce una figura contraddittoria e chimerica, ove per chimera s’intende, appunto, il risultato della zoologia fantastica, che compone nature incompatibili.
Per misurare l’assurdità dell’accostamento del cattolico Vico all’illuminista e liberale Locke, i due protagonisti dell’incipiente conflitto tra Chiesa e mondo moderno, basta, peraltro, leggere la magistrale pagina dell’autobiografia vichiana, nella quale è descritto, con linguaggio insolitamente aggressivo, il rovinoso cammino dell’epicureismo moderno, da Pierre Gassendi al suo seguace John Locke.
Rievocate le fasi del successo ottenuto dal neoepicureo Pierre Gassendi nella Napoli del tardo Seicento, Vico, parlando in terza persona, dichiara, infatti, che “In lui si destò voglia d’intenderla [la filosofia di Epicuro] sopra Lucrezio. Nella cui lezione conobbe che Epicureo, perché niegava la mente d’esser d’altro genere di sostanza che ‘l corpo, per difetto di buona metafisica rimasto di mente limitata, dovette porre principio di filosofia il corpo già formato e diviso in parti multiformi ultime composte di altre parti, le quali, per difetto di vuoto interspersovi, finselsi indivisibili: ch’è una filosofia da soddisfare le menti corte de’ fanciulli e le deboli delle donnicciole. E quantunque egli non sapesse né meno di geometria, con tutto ciò con un buono ordinato seguito di conseguenze vi fabbrica sopra una fisica meccanica, una metafisica tutta del senso, quale sarebbe appunto quella di Giovanni Locke, e una metafisica del piacere, buona per uomini che debbon vivere in solitudine” (“Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo”).
Chi conosce l’influsso dell’epicureismo nella filosofia materialista di Marx non ha difficoltà a considerare l’enorme distanza che separa Locke da Vico. E a riconoscere il decisivo contributo della ideologia liberale ai delitti consumati tra il 1789 e il 1989, i due secoli intitolati alla sterminante modernità.
Si può infine comprendere perché Eric Voegelin ha sostenuto che niente giustifica il sonno della ragione settecentesca, che ha dovuto contemplare tutta la sciagurata storia delle rivoluzioni, liberale, comunista e nazista, prima di comprendere le ragioni di Vico e di riconoscere che, nella dialettica dell’illuminismo, c’era qualcosa che non andava.
L’accostamento di Locke a San Tommaso, poi, è ridicolo da ogni punto di vista. Per l’insensata negazione dell’idea di sostanza, e per la cieca fedeltà al pregiudizio empiristico, Locke è, infatti, il pre-padre di quel debolismo filosofico, che si oppone, con disperato e inutile accanimento, alla rinascita della metafisica tomista, rinascita che è in atto grazie al geniale opera di Cornelio Fabro. Incomincia da Locke il devastante cammino del relativismo, nel quale Benedetto XVI riconosce la malattia mortale della ragion moderna.
L’autorevole Maria Adelaide Raschini, del resto, ha affermato che “Con il Locke l’empirismo dogmatico di Bacone cede alla critica che riconosce i limiti di una ragione legata all’esperienza sensibile, svela la sua radice soggettivistica e annuncia le conseguenze scettiche sviluppate in seguito da Hume, cui conduce inevitabilmente ogni gnoseologia puramente empiristica” (Cfr.: “Da Bacone a Kant”, Marzorati, Milano 1973, pag. 270)
Non ha neanche senso sostenere che la filosofia di Locke può essere utile al laboratorio culturale del centrodestra perché offre un sano modello di tolleranza liberale. L’idea di tolleranza esposta da Locke è, infatti, inquinata e dallo scetticismo e vanificata dalla fanatica avversione al Cattolicesimo.
Maria Adelaide Raschini ha dimostrato che, nella chiesa concepita da Locke, la tolleranza è coniugata con l’assenza di qualunque contenuto dottrinale definito: “In tale assenza di dottrina, la chiesa lockiana riflette l’assenza di ogni contenuto veritativo della religione, a conferma del fondamentale agnosticismo del Locke, che, per salvare l’esigenza prammatica e quella utilitaria che sole restano di fronte al nominalismo concettuale e al probabilismo dei giudizi, esige la tolleranza religiosa, affinché nessun conflitto in nome di una inverificabile verità divina turbi la pace terrena degli uomini. La tolleranza si presenta come la veste formale del vivere civile, ed è in realtà null’altro che il segno dell’indifferenza religiosa; convivano perciò le religioni tutte tollerate, tranne la confessione cattolica” (“Da Bacone a Kant”, op. cit., pag. 277).
Detto questo, che cosa può giustificare l’innesto della dottrina politica cattolica sul fossile liberale, se non un’allucinazione, del genere di quella che persuase Bloy e Maritain a salutare l’aurora di un millennio santo e felice mentre apparivano i segnali che annunciavano la sanguinaria escandescenza del Novecento?
Il saggio che padre Julio Meinvielle ha dedicato all’influsso dell’ideologia liberale nel pensiero cattolico del Novecento hanno peraltro dimostrato l’inconsistenza e l’artificiosità degli argomenti usati da Maritain per giustificare l’alleanza con il “moderno”.
Che l’ideologia liberale sia un arnese inutile, del resto, cominciano a capirlo anche i più aggiornati intellettuali d’area.
L’affranto liberal Ezio Mauro, dalle colonne lacrimose di “Repubblica”, confessa, addirittura, che il pensiero illuministico è inutilizzabile perché radioattivo. Riconosce, pertanto, che la Chiesa cattolica è l’unica agenzia culturale oggi credibile.
Corinne Pelluchon, accreditata interprete di un nascente liberalismo antimoderno, riconosce, dal suo canto, che l’esito fatale del moderno è il nichilismo.
Di conseguenza sottoscrive e approfondisce il giudizio sul fallimento liberale, che è stato formulato da Leo Strauss: “I moderni hanno perso qualcosa di cruciale nella loro lotta contro la tradizione. Volevano creare uno stato in cui individui e filosofi potessero coesistere senza essere perseguitati per il loro credo religioso. E perciò hanno lottato contro la Chiesa e quanti volevano restaurare uno Stato teologico. Hobbes e Spinoza hanno contribuito a edificare la democrazia liberale, certo. Eppure nella loro concezione dell’uomo e della ragione c’è qualcosa che spinge la modernità verso una dialettica distruttiva che ha già mostrato i suoi aspetti peggiori nel secolo scorso e continua ad ammannirli oggi. Strauss non denuncia il tramonto dell’Occidente come faceva Spengler. Non critica la modernità per tornare al passato, sognando il mondo chiuso della polis greca. E rifiuta la diagnosi di Heidegger sull’errore dovuto alla metafisica di Platone. In realtà non fa che puntare il dito sull’orientamento morale tipico della civiltà occidentale per domandarsi se il pensiero premoderno estraneo alla democrazia liberale non possa servire da salvaguardia alla stessa democrazia liberale” (Cfr.: Marina Valensise, “Perché storicismo e relativismo ci fanno diventare nichilisti e filistei”, “Il Foglio”, 25 maggio 2005).
Dichiarare che solamente la tradizione cattolica può salvare la democrazia liberale, significa confessare che il liberalismo può vivere solo di ciò a cui era fanaticamente contrario. In ultima analisi significa ammettere, infine, che la democrazia può esistere senza il deviante sostegno dell’ideologia liberale.
Le intelligenti fumigazioni straussiane non servono a nascondere lo sfacelo dell’ideologia liberale.
L’affondamento del moderno ha prodotto un gorgo che trascina al fondo e il modernismo e il millenarismo di Bloy e Maritain. I teorici della mediazione ad ogni costo e i banditori del curvismo ideologico sono finiti nello scaffale antiquario che è degnamente frequentato solo dai due vedovi del mesto Dossetti, il fattucchiere Giuseppe Alberigo e il medium Romano Prodi.
Il curvo e ubiquo plesso cattoliberale è sciolto dalla risata che sempre accompagna il corteo dei re nudi. La politica cattolica può fare a meno del contributo della fumosa lezione di Locke e dei liberali dopo Locke.
D’ora in avanti, per scongiurare gli errori e gli orrori del totalitarismo e per fondare una sana democrazia sarà sufficiente adottare quegli insegnamenti della tradizione cattolica, che sono stati interpretati magnificamente da Pio XII, nel messaggio per il Natale del 1944.
Al proposito occorre rammentare che, alle soglie della catastrofe moderna, il domenicano Francisco de Vitoria approfondendo la lezione di San Tommaso d’Aquino pose le basi della vera democrazia, affermando (contro i teorici dell’assolutismo politico) che Dio comunica l’auctoritas prima al popolo che al sovrano.
Coerentemente De Vitoria formulò la teoria della translatio auctoritatis verso il principe, teoria dalla quale discese la sua magistrale e conclusiva sentenza: “creat respublica regem” (De protestate civili, 8).
Con riferimento esplicito a San Tommaso, implicito a Francisco de Vitoria, anche il gesuita Francisco Suarez sostenne che l’autorità non è esclusiva prerogativa del principe: “Dicendum est potestatem (civilem) ex sola rei natura in nullo singulari homine existere, sed in hominum collectione. Conclusio communis et certa sumitur ex D. Thoma ... principem habere potestatem ferendi leges quam in illum transtulit communitas” (De legibus ac Deo legislatore, III, (De lege humana et civili, c. 2, In quibus hominibus immediate existat ex natura rei potestas haec condendi leges humanas).
San Roberto Bellarmino, quasi facendo eco a De Vitoria, precisò che Dio non ha inteso conferire l’autorità all’esclusiva persona del principe: “Politicam potestatem immediate esse tamquam in subiecto in tota multitudine, nam haec potestas est de iure divino, et ius nulli modo in particulari dedit hanc potestatem” (De laicis, 6).
Infine, Giambattista Vico, che fu erede e continuatore della cultura controriformista, contestò duramente la dottrina del più autorevole sostenitore dell’assolutismo, Thomas Hobbes.
Va da sé che lo sviluppo del pensiero cattolico non si è fermato all’età della Controriforma e di Vico. L’Ottocento e il Novecento sono stati teatri di una magnifica produzione di documenti papali e di una eccezionale fioritura di autori capaci di approfondire e attualizzare la tradizione cattolica.
Cornelio Fabro, Nicola Petruzzellis, Tito Centi, Raimondo Spiazzi, Andrea Dalle donne e Rosa Goglia hanno liberato il tomismo delle incrostazioni depositate dal formalismo della scolastica decadente.
Antonio Rosmini, Emilio Chiocchietti, Giorgio Del Vecchio, Michele Federico Sciacca, Francesco Amerio, Giuseppe Capograssi, Luigi Bellofiore e Francisco Elias de Tejada hanno rinverdito gli studi vichiani, emancipando la dottrina del diritto naturale dalle incapacitanti ipoteche accese dall’illuminismo, dal positivismo e dallo storicismo.
Alfredo Ottaviani, Giuseppe Siri, Antonio Messineo, Cornelio Fabro, Julio Meinvielle ed Ennio Innocenti hanno confutato le avventurose e disgraziate opinioni di Maritain intorno al Cristianesimo che s’incarna nella storia grazie al contributo dei movimenti anticristiani.
Nell’insegnamento dei grandi pensatori dell’Ottocento e del Novecento cattolici e non negli smunti cascami dell’ideologia liberale, il centrodestra può trovare la forza necessaria a vincere le sfide lanciate dalla sinistra.
E’ però necessario un radicale mutamento della strategia finora attuata dai gruppi tradizionalisti, che, in ordine sparso e sotto il grottesco vessillo della rivalità, operano nel centrodestra.
Ci si augura, dunque, che i gruppi, oggi indaffarati a fare scialo delle vincenti ragioni della filosofia tradizionale negli estenuanti e vani traffici del partitismo, traggano finalmente incentivo all’azione unitaria dalla riconosciuta necessità di un progetto culturale inteso a produrre quella chiarezza delle idee che sola può salvare il centrodestra dal naufragio nelle idee perdenti e l’Italia dalla sciagura zapateriana.

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