domenica 31 gennaio 2010

Psicoanalisi della persecuzione progressista

Un tempo le nozioni erano dette vere o false, secondo uno schema che reputava inconfutabile il principio di non contraddizione. Ma il radioso, indomito pensiero dialettico distingue e cataloga le nozioni secondo le categorie della correttezza politica e della pericolosità.
Giuste, solidali e politicamente corrette sono le nozioni utili ai rottami dell’utopia: nella loro radunata risiede la verità. Tutte le altre nozioni sono pericolose, ingiuste, egoistiche, scorrette e inclini al consumismo.
L’olocausto vandeano, ad esempio, nelle mirabili parole di Michelet, diventa una filantropica eutanasia, giustificata dall’impossibilità di far entrare i refrattari nel paradiso allestito dalla rivoluzione giacobina. Scrive al proposito Riccardo Pedrizzi: “I democratici giacobini si comportarono con i vandeani così come a distanza di decenni avrebbero agito i criminali dei campi di concentramento e dei gulag, ma nessuno se ne ricorda e nessuno riusciva nemmeno ad intravedere nello sterminio vandeano il preludio e l’antecedente logico degli stermini del ventesimo secolo” .
Le verità, che hanno fondamento nell’evidenza piuttosto che nella pietra filosofale, sono insolenti e di destra. La vigilanza rivoluzionaria, pertanto, è sempre intesa allo smascheramento e alla punizione di coloro che affermano l’esistenza della verità separata dalla convenienza ideologica. Giudici in austero e perpetuo allarme sorvegliano i renitenti al dogma e ammoniscono gli eventuali autori di insidiosi appelli all’evidenza.
L’esplorazione dei pensieri e degli atti compiuti dalle rivoluzioni moderne, nell’età postmoderna, è dunque severamente proibita. Nell’età dei buoni pensieri trionfanti sulla reazionaria evidenza, la sentinella inquisitoria vigila sull’ultima spiaggia del laicismo. Tra di loro l’autorevole Marco Follini secondo la cui illuminata sentenza i sanguinari oppressori giacobini erano preferibili ai liberatori cattolici comandati dal bieco cardinale Fabrizio Ruffo.
Solamente alcuni intrepidi studiosi, votati alla gogna culturale, hanno osato avventurarsi nella selva del pensiero esorbitante-tracotante per affermare l’evidenza delle verità di ragione: pochi coloro che avevano tutto da perdere, Giuseppe Siri, Cornelio Fabro, Nicola Petruzzellis, Julio Meinvielle, Michele Federico Sciacca, Francisco Elias de Tejada, Marcel De Corte, Augusto Del Noce, Dario Composta, Raimondo Spiazzi, Nino Badano e pochissimi coloro che, pur avendo tutto da guadagnare, hanno seguito il loro esempio.
Si può sostenere che l’annuncio del pericolo è il bastone della vecchiaia ideologica? Questo intrigante pensiero si affacciò, all’improvviso, nel penultimo giorno della primavera di Praga. Correva l’anno 1968, e il socialismo reale scopriva le sue rughe vetuste. Nella piazza san Venceslao un gruppetto di turisti, giunti dall’Emilia delle cooperative, discuteva con i giovani della Praga dissenziente e irridente. Udite le critiche impertinenti dei controrivoluzionari locali, il più autorevole dei cooperativisti in gita, scandalizzandosi esclamò:
- Attenti compagni, voi mettete in pericolo la rivoluzione socialista!
- Caro compagno (sulla parola compagno il pericoloso controrivoluzionario, aveva calato un accento fortemente ironico) in vent’anni di oppressione abbiamo imparato che il vero pericolo è la conservazione dell’incubo socialista.
Infastidito, dell’immarcescibile socialista emiliano soffocò la risposta in un silenzio allarmato. L’evidenza era contro l’ideologia sacra. Ma l’evidenza era una porta aperta sulla pericolosa e sommaria verità enunciata dal dissidente, che mescolava la luce del socialismo con la notte della conservazione. Una sinistra reazionaria fino ad allora rappresentava il Puro Ossimoro e l’Assolutamente Inaudito. Un’intollerabile deviazione dalla filosofia dominante. Se non che l’atmosfera di Praga era elettrica e minacciosa. Il socialista tacque prudentemente. In sua vece, il giorno dopo, parlarono i cingoli dei carri sovietici: la rivoluzione allontanò il pericolo. Il socialismo fu conservato, a beneficio e gloria delle cooperative emiliane.
Ora si può affermare con animo tranquillo (ed esprimendosi per mezzo dell’enjemblent, tanto caro ai letterati di sinistra) che il pericolo non è la dirompenza del carro armato ma la coscienza personale impertinente, che crede nella verità oggettiva e, pertanto, spregia i meravigliosi frutti della rivoluzione cingolata.
L’agguato al Bene rivoluzionario è teso dagli oscurantisti irriducibili, che cercano la verità negando la realtà del paradiso filosofico in terra. Le refrattarie monache carmelitane della clausura di Compiègne, ad esempio. Per assecondare la nota inclinazione del loro ordine all’ingerenza negli affari di stato, le monache impertinenti rifiutarono di ascoltare la messa ufficiale, celebrata da preti apostati, allineati con il regime giacobino. Si macchiarono di una colpa grave: contestare, per i futili motivi della coscienza, il culto approvato dal regime rivoluzionario.
Furono ghigliottinate d’urgenza. La rivoluzione correva un pericolo mortale. Le scostumate provocatrici salirono i gradini del patibolo cantando addirittura inni religiosi. In latino, dimostrando, senza volerlo, che il pericolo reazionario ha sede nella coscienza chiusa alle meraviglie della liturgia volgarizzata.
Il tormentato rapporto tra la rivoluzione e il pericolo costituito dalle carmelitane riformate da santa Teresa d’Avila è, senza dubbio, materia incandescente per la psicoanalisi d’avanguardia. Molti si augurano che, un giorno o l’altro, il celebre guru di “Repubblica”, lo psicoanalista Umberto Galimberti, sottragga qualche ora al prezioso impegno nella redazione e, calandosi nelle profondità della psiche rivoluzionaria, tenti di spiegare ai profani l’occulta ragione dei corsi e ricorsi delle carmelitane nella storia dei pericoli incombenti sulla sinistra rivoluzionaria.
Ad esempio, perché Roberto Calasso , palombaro del marxismo “profondo” e pescatore di perle iniziatiche per i calandrini di tutte le risme, nutre un odio implacabile (e squisitamente psicoanalitico) contro le carmelitane?
Nella “Rovina di Kasch”, libro dei morti comunisti viventi nel postmoderno per la delizia dei vedovi neodestri, Calasso, quasi esibendo la volontà di titillare Paolo Flores d’Arcais, non esita a calunniare bestialmente le Carmelitane di Compiègne, martirizzate nel 1794 dai terroristi giacobini.
Realizzando l’associazione chimerica del nobile ascetismo carmelitano con la tormentata depravazione sado - libertina, Calasso (che di imposture sadiane mostra d’intendersi a meraviglia) scrive senza ritegni: “Non dimentichiamoci che le Carmelitane erano il bordello dei curati. E allora ...” .
Tra le tante storie da psicoanalizzare, spicca la vicissitudine della ispanica madre Teresa, in religione detta (con antipatico riferimento all’inizio platonico della sapienza) delle meraviglie di Dio. Già il nome ampolloso e obsoleto era sospetto, in quanto escludeva (pericolosamente) le meraviglie con cui la rivoluzione in atto nella Barcellona degli anni Trenta correggeva gli errori e le omissioni del demiurgo biblico.
I vigilanti rossi comandarono a madre Teresa di mettere nero su bianco l’inventario dei tesori nascosti nel Carmelo. La scandalosa monaca, sventuratamente nata prima che il cardinale arcivescovo di Santiago, Raul Silva Henriquez, illuminasse i fedeli sulla natura profetica della filosofia di Marx, scrisse invece una frase inopportuna: “Il tesoro del Carmelo è la misericordia di Gesù”.
Come sarebbe a dire? Di fronte alla monacale arroganza, la rivoluzione, lo insegna il magnifico manuale del cekista, non può concedersi lussi borghesi: toglie i guanti bianchi e punisce fulmineamente. L’ingiuriosa suor Teresa fu passata per le armi. Se questo passaggio della monaca impertinente non è materia da psicoanalisi, quando mai sarà possibile psicoanalizzare la persecuzione?
Ma quale palombaro dello spirito rivoluzionario riuscirà a districare la matassa che metteva capo al rovente atto di accusa della sinistra veronese? Proclamava un ideologo nella città di Romeo e Giulietta: “L’Austria è ovunque. Anche noi diventeremo razzisti. Cresce la paura dell’altro. Zingari, l’Islam, gli ebrei. L’uscita di Biffi contro i musulmani è gravissima” (“Repubblica”, 21 settembre 2000).
La luminosa movimentazione della pedofilia nella giunta progressista di Verona ha cancellato la turpe memoria della destra al potere. Ma un tempo Verona era un lager di destra e il cardinale Biffi un oscuro aguzzino. Se fosse stato ancora vivo il glorioso compagno Stalin, avrebbe impartito una dura lezione sillogistica al signor Biffi. La logica progressista ha un rigore inflessibile. Frangar non flectar. Non aveva nessuna importanza che il rabbino di Verona, dottor Piattelli, avesse dichiarato (al Tg 4 di sabato 23 settembre 2000) che a Verona la comunità ebraica viveva tranquillamente e non vedeva l’insorgenza di alcun razzismo. Evidentemente il dottor Piattelli era incapsulato in quell’odiosa e bieca realtà, che ha smentito ed espulso l’ideologia. Alla larga dalla realtà: l’essenziale è denunciare il pericolo, che i vigilanti intravedono nel cielo del loro astratto ideale (del rivoluzionario Mazzini, diceva Carducci: “tu sol, pensava, o ideal sei vero”).
Il cardinale Biffi non appartiene all’ordine del Carmelo, ma una sua lettera pastorale gettò la pericolosa ombra dell’evidenza sullo splendore della fisima multiculturale. Di conseguenza la ferrea catena dell’interdetto, catena “logica” che parte da Hitler e attraverso Heider giunge alla mostruosa Arcore, è allungata fino a Bologna, per inchiodare il cardinale.
In attesa di nuove carmelitane fucilabili e dell’uscita dei carri armati sovietici dalle nebbie del passato, la missione dei carristi,, consiste nell’incolpare le voci fuori dal coro, qual è, appunto, il cardinale Biffi. Il fine è infangare il pensiero realista, squalificare il cattolicesimo, alimentare la sindrome rivoluzionaria che denuncia l’odiosa trama carmelitan-biffiana.

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