martedì 25 maggio 2010

ITINERARI DELLA DESTRA CATTOLICA. Presentazion di Giulio Alfano (prosegue)

Mi piace ricordare che il discorso di Vassallo ruota intorno,io credo, alla teoria dello stato e a quella dell’autorità,ricordandoci che senza un’autorità è impossibile l’unità della comunità politica e tale discorso mi sembra particolarmente interessante non solo perché insegno filosofia politica,ma perché oggi ci si chiede sempre più la ragione d’essere dell’autorità nella vita politica e sociale,in una crisi di guida a tutti i livelli della società,dalla famiglia al referente istituzionale dello stato,dalla scuola fino a volte allo stesso mondo cattolico. L’autore ci fa comprendere,attraverso una serie di capitoli molto interessanti,che il problema contemporaneo è proprio l’autorità;tutte le teorie dello stato si rintracciano nei diversi orientamenti di pensiero e si muovono dalla constatazione secondo cui lo stato è una forma associativa e viene riconosciuto come momento unitario di consapevolezza giuridica dell’azione ed ineliminabile della sua struttura è il fatto che i soggetti vivono in esso e vi svolgono determinate funzioni al suo interno,per cui occorre trovare una via per esaminare tale struttura che consiste nella ricerca delle forme più importanti,delineabili storicamente,in cui i soggetti si associano nello stato. Ciò che comunemente viene definito “massa” è il tipo di associazione più basso ed ha come caratteristica il fatto che coloro che ne fanno parte si influenzano reciprocamente senza,tuttavia,rendersi conto dell’influsso esercitato e senza vivere in modo comunitario il loro comportamento “politico” che può essere per tutti uniforme soltanto grazie a quello scambio. Vassallo ricorda anche il contributo di Alexis de Tocqueville;vorrei ricordare come proprio questo esponente del liberalismo fu tra coloro che riconobbero il necessario ruolo della religione nella politica. In un discorso all’Assemblea Nazionale francese in quell’intenso 1848,che sembrava far volgere il baricentro delle vicende a favore di una rivoluzione socialistica in tutta Europa,egli ricordava che non era socialismo,bensì cristianesimo,perché la difesa del diritto allo studio,al lavoro e alla salute,sono elementi propri della visione cristiana. Non possiamo dimenticare che proprio la politica del fascismo,con la Carta del Lavoro,la Previdenza Sociale,la Riforma Gentile,sia stato in linea con gli elementi propri della visione sociale cristiana,seppure nell’ambito di una concezione per certi versi non ortodossa. Anche in altri studi Vassallo dimostrando una conoscenza non comune e una finezza d’indagine non ordinaria,ha dimostrato come le radici politiche della Destra vadano riviste,direi però studiate “ex novo”,perché da studioso accorto e raffinato egli approfondisce non solo le differenze tra fascismo e nazismo,ma si spinge ad un’ analisi delle fonti ontologiche della cultura fascista,rinvenendo nella Scuola di Milano,quell’originale collaborazione tra il Card.Schuster e Arnaldo Mussolini,che diede vita ad un recupero delle fonti storiche sovente ignorato dagli studiosi degli ultimi decenni. Va detto che il fascismo ebbe una sua metafisica,completamente assente nel marxismo,che ha consentito a Mussolini di far superare all’Italia la grave crisi del ’29,affidando ad un ruolo dello stato la possibilità che le classi sociali più svantaggiate non venissero a pagare il fio di un capitalismo senza scrupoli. Ricorda Vassallo (p.91) che uno dei principali compiuti della politica è la difesa del diritto naturale,perché preesistente allo stato stesso e in questo sottolinea la grande lezione di G.B.Vico,contrapposta giustamente a Baruch Spinoza e a Renato Cartesio,le conseguenze dei pensieri dei quali vediamo tristemente applicate ed omaggiate dai tristi tramonti di ideologie consegnate all’indulgenza del nostro perdono cristiano,ma che hanno segnato di indifferenza e sangue la nostra storia. Vico attribuisce precedenza alla società sullo stato e Vassallo ricorda come tale lezione sia stata ripresa nel dopoguerra non solo da Giorgio Del Vecchio nel suo famoso e ponderoso studio “Lo Stato” del 1952,ma anche da altri ed esimi autori come Francisco de Tejada,caposcuola del tradizionalismo ispanico noto in Italia per le riflessioni di Silvio Vitale e consentitemi di ricordare che la Spagna di Francisco Franco(1892/1975) è stata forse l’unica nell’Europa del dopoguerra a non dimenticare la lezione di Vico e mi auguro che qualche storico e taluni politologi diano al “Caudillo” il giusto posto nella storia del XX°secolo. Ma perché proprio Vico va riconsiderato agli esordi di un nuovo millennio? Io credo che il lavoro del prof.Vassallo ci aiuta a capirne il portato culturale e,soprattutto,ad individuate cosa si debba intendere per “cultura”;la prospettiva oggettiva del fenomeno culturale assume un valore reale solo quando le emozioni,le attitudini,i modelli che esprimono i loro simboli,si trasfondono negli spiriti concreti degli uomini e tale validità è determinata dall’autenticità,ampiezza e profondità di tale immedesimazione,non solo in considerazione di un individuo determinato,ma soprattutto in senso esteso e sociale,perché i valori culturali “obbligano” a vivere in accordo con le loro esigenze e con i loro orientamenti. L’azione intrapresa per rendere attive le facoltà dell’uomo animandole,motivandole e proporzionandole,indicando mete,vie da seguire e modelli,costituisce quello che chiamiamo “educazione”;essa,tuttavia,non si trasmette a vuoto,ma necessita di strumenti mediatori cjhe servono allo spirito come punti di riferimento e che facilitano gli obiettivi e i punti d’appoggio. Questa è la funzione dei simboli contenuti nelle relazioni culturali. La convivenza sociale e la formazione della coscienza civico-politica,non possono ridursi al semplice apprendimento delle norme,ma occorre infondere nell’anima la capacità o le “virtù”(la greca ARETE’) di indole comunitaria ,se si vuole che le genti affrontino con successo i difficili problemi imposti dalla vita contemporanea. Il ricordo di norme acquisite avrà il suo momento a posteriori come condensamento di un “habitus” ormai acquisito,che non si comunica attraverso simboli verbali,ma essi devono diventare parte stessa dell’anima per la vita e la convivenza civile,suscitando valori comuni e modellando le coscienze nel servizio e nella dedizione. Qualcuno diceva che l’obbedienza non è una virtù:può darsi,sta di fatto che essa costituisce un elemento oggi in crisi verticale perché è stato inficiato il principio della “terzietà”,fondamentale in ogni società che si voglia definire civile,un “tertium”neutro che giudica e che provvede all’emendazione dell’errore. In tal senso anche le sofferte parole che il prof.Vassallo scrive sulla Destra politica contemporanea sono assolutamente illuminanti,quando stigmatizza (p.92) le “..fuorvianti chiacchiere intorno alla fine delle ideologie hanno fatto da colonna sonora allo sfondamento di Alleanza Nazionale”,sottolineando il vuoto mentale a cui si è pervenuti anche da destra, dove per molti decenni vi sono state intelligenze fulgide che hanno avuto l’onore di mantenere l’onestà di un pensiero politico denso di significato ontologico. Il risultato è oggi lo sfaldamento tra politica e filosofia di riferimento che non riguarda solo la destra ma tutto lo scenario politico,con la conseguenza del pericoloso annullamento di ogni identità. La sensazione di crisi che tanto nell’ordine sociale come in quello economico,politico e culturale,attualmente sperimentano le intelligenze più vivaci e riflessive,come quella espressa da Piero Vassallo,maestro oltre che intellettuale,e che le masse percepiscono in modo osciuro ma profondo,non si allevierà unendo la nostra voce al coro geremiaco del pessimismo catastrofistico,figlio di una specie moderna di timore millenario,questo non è il senso del libro che Vassallo ha scritto! Esso ci esorta invece ad aprire bene gli occhi per comprendere la complessa fenomenologia della società italiana attuale,per disporre le menti e le volontà dell’opera di ricostruzione dell’equilibrio perduto a livello richiesto della situazione dell’economia e della tecnica,ma anche della giustizia sociale e della libertà. Penso tuttavia che i frutti si vedranno solo su un terreno psicologicamente adeguato,quando la società sarà abituata ad utilizzare le proprie energie in modo meno anarchico e sterile di quello proposto da un individualismo ad oltranza,in modo che lo spirito di collaborazione sfoci nella creazione di molteplici società intermedie fra individuo e stato. Questo non solo perché i tempi ribadiscono l’attualità delle concezioni pluraliste(la democrazia della partecipazione,per intenderci),ma anche perché conviene convincere gli uomini ad associarsi per fini di reciproco aiuto differenti e relativi a quelli di carattere strettamente politico,creando gruppi che agiscano come efficaci crogiuoli del tirocinio della convivenza e del civismo. A questo proposito illuminanti sono le parole che Vassallo dedica al realismo come avanguardia in Giano Accame,ma anche sulla gnosi della cultura della neodestra,ancora non da tutti recepita e debitamente approfondita. In questo senso mi permetto di indicare quali conseguenze positive potrebbero prendere i politici,ma anche gli intellettuali,dalle sollecitazioni di Vassallo. Egli non è un “laudator temporis acti”,anche se dal passato si devono ricavare lezioni storiche e non politiche:l’Italia credo sia l’unico paese al mondo che fa politica con la storia e,ahimè,storia con la politica,per cui il capitolo che il professore dedica alle differenze tra nazismo e fascismo mi auguro voglia ampliarlo in un suo atteso e indispensabile studio,perché del fascismo abbiamo studiato tutto storicamente,grazie alle imponenti monografie di De Felice,ma,penso,poco politicamente. Piero Vassallo ci aiuta a comprendere che di fronte alla pratica professionale che limitava l’azione del potere in materia associativa ad una disciplina di carattere negativo,la necessità di ristrutturare la società in crisi verticale,consiglia l’urgente adozione di una politica che stimoli,fomenti e dia vigore a quelle che in filosofia politica si definiscono come “associazioni volontarie”,gruppi costituiti per supplire alle debolezze individuali e collaborare efficacemente a soddisfare le necessità collettive. Da questo bel volume,al quale auguro una diffusione rapida soprattutto tra i giovani che mancano di maestri e Vassallo è un grande maestro proprio per chi vuole arricchire di etica e di motivazione la propria vita,possiamo trarre molti insegnamenti,ma credo, più di tutti due. Il primo consiste nella NECESSITà DI COSTRUIRE QUEL RECIPROCO SENTIMENTO DI COLLABORAZIONE ALLA VERITà,QUELLA “CARITAS generi humani” che va protetta e difesa da ogni cristallizzazione dello spirito,per rimuovere le inerzie ritardate e scuotere i pregiudizi individualistici,per tornare alla gioia nell’obbedienza ad una norma pienamente accettata,nel giusto ripristino della vera politica vissuta e perché no,anche sofferta,senza sotterfugi,né inganni. Il secondo elemento da trarre consiste nel sapere che l’educazione e il lavoro sociale sono campi che necessitano di grande attenzione,che iniziano sin dall’educazione familiare e scolastica,la cui forma ostinatamente intellettualistica non ha saputo produrre in questi ultimi decenni comportamenti adeguati alle sfide che la modernità ci riserva. Il popolo al quale codesta educazione è rivolta,non è né la classe più debole più fortemente condizionata dal punto di vista sociologico,ma neppure la frazione sminuita e diseredata della società,come generalmente fa credere l’uso abituale di tale parola. Il progetto educativo implica un insieme di attività tese a riordinare le attitudini,gli ideali ed i valori della società globale,perché il popolo non è la parte inferiore dell’insieme sociale,ma la totalità di questo. In questo senso il popolo è l’unità comunitaria di tutti gli abitanti di un paese e la cultura sarà,di conseguenza,il frutto maturo di una serie di attività tese a potenziare le sue virtù,non in astratto,come è accaduto sovente in questi ultimi periodi,ma partendo da gruppi concreti nei quali si organizza la vita politica nazionale. Per un lavoro tanto impegnativo è necessaria la conoscenza e l’esperienza che gli uomini di cultura possono offrire,senza utilizzazioni partigiane o estemporanee per creare surrogati personalistici di dominio neofeudale della politica come sono oggi spesso le fondazioni che fagocitano i partiti,senza i quali,vorrei ricordare,non può esserci democrazia,né libertà politica. L’entusiasmo e la passione sono motori fondamentali,ma senza una caratura morale,senza una spinta etica la politica somiglia ad uno di quei bellissimi affreschi rinascimentali facili da ottenere,ma difficili da mantenere. Negli ultimi anni sono venuti al pettine alcuni nodi:il lassismo nelle istituzioni,il disprezzo della meritocrazia,il distacco del palazzo della politica dai cittadini che gli corrispondono soldi e prebende attraverso un rito elettorale sempre più stanco e sempre meno efficace a ripristinare il senso della giustizia e della vera vita democratica. E ‘ ora quindi che guardiamo la crisi che abbiamo di fronte senza pregiudizi e che prendiamo atto che le ideologie,al di là delle .loro utilizzazioni,sono state il monitore della vita politica degli ultimi due secoli e il dramma sociale educativo non disgiunto dai progressi della tecnica e della scienza,devono aprirci ad un respiro morale che segue gli itinerari di appartenenza culturale da adottare per tornare ad essere uomini che,come dice S. Ireneo di Lione,sono “gloria di Dio”!
(Prof. Giulio Alfano)









martedì 9 marzo 2010

Fare futuro, il passato di un abbaglio (prosegue)

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Franz Maria D’Asaro ha descritto puntualmente il malinteso che eccitava i mutanti di destra: “Quei ragazzi non sapevano ... che erano dei profeti, addirittura degli anticipatori della nuova sinistra. Con qualche azzardato confronto: quelli, i nazionalsociali, con Evola e Guénon, gli altri, i cinesi, con Adorno e Marcuse, ma tutti in disperata polemica contro la società dei consumi, il primato dei banchieri, l’egemonia del cinico utilitarismo. Gli uni e gli altri in dissenso anche nei confronti dei rispettivi partiti di riferimento partitici, quasi intercambiabili fra Evola e Marcuse, fra Che Guevara e Mishima” .
Nell’animo dei tigrotti, la miscela di temi controrivoluzionari e temi anarchici originò durature confusioni, entusiasmi immotivati ed indomabili propensioni alla fuga vero la violenza gratuita (negli anni di piombo puntualmente esercitata dai tigrotti mentalmente vulnerabili).
Quando Alain De Benoist, evocato da Armando Plebe, scese in Italia per suscitare emozioni e consensi intorno allo slogan et destra et sinistra, gli immaturi apprendisti festanti nella scolastica evoliana erano già pronti a procedere, con una sola marcia, su due divergenti percorsi, et quello della contestazione globale et quello dell'estenuazione reazionaria.
Malauguratamente al paradosso che avvicinava Evola e Guénon a Benjamin, Adorno, e Marcuse, era soggiacente una verità allora nascosta: al di sotto delle ragioni estetiche e in fondo soggettive delle reciproche incompatibilità, concomitanti riferimenti a tradizioni (cabale) eterodosse e a filosofemi crepuscolari, giustificavano l’accordo sotterraneo tra le due diverse e concorrenti scuole postmoderne d'irreligione.
Dagli opposti capiscuola, infatti, era condivisa la stima per la dottrina di un antico precursore dei maestri del sospetto, l'eresiarca Marcione Pontico.
Quasi obbedendo alle regole della concordia discors, i teorici della contestazione globale e i banditori del tradizionalismo rivoluzionario, avevano dedotto dalla dottrina di
Marcione la propensione all’immoralismo e la fanatica ostilità verso la teodicea e la rivelazione biblica.
La fonte comune dei pensieri convergenti da sinistra a destra e da destra a sinistra, infatti, era quel “cristianesimo tedesco”, che aveva attualizzato Marcione trasferendolo dai ponderosi e astratti volumi di Hegel, Schelling e von Harnack ai tumultuosi stati d’animo di Arthur Rosemberg e degli iniziati in camicia bruna, vedi caso quelli che Evola frequentava negli anni Trenta.
Religione ad uso delle masse fanatizzate, il cristianesimo tedesco contemplava una divinità straniera e remota, che avrebbe rivelato la dottrina libertaria, opposta per diametrum alla legge dettata a Mosé e a Israele.
Di qui l’ingresso sull'agitata scena europea, di una teologia antisemita, contemplante il cristianesimo nemico mortale della tradizione veterotestamentaria e del popolo d’Israele.
Marcione, in definitiva, ha insegnato ai nazisti la ricetta di un antisemitismo travestito da fede cristiana e ai francofortesi la via che dalla destra pseudo-mistica e razzista conduce all'ateismo e alla sovversione ultracomunista.
Fatto singolare, finora non considerato con la dovuta attenzione dai politologi, è il giro tortuoso della fede in Marcione dai circoli del nazismo profondo
alle agenzie culturali che ispirano la sinistra postmoderna.
Per giustificare l'acrobatico passaggio, Jacob Taubes, il principale interprete del sessantottismo europeo, approvò l'avversione dei nazisti alla teologia veterotestamentaria, sostenendo che prima di Mosé, la spiritualità ebraica aveva un indirizzo anarchico e immoralistico. Dunque che la Germania nazista era l'involontaria levatrice della vera coscienza ebraica.
Ulteriore elemento di confusione a destra fu la strana rilettura di Nietzsche, che negli scritti dell'ultimo Evola era esaltato quale portatore di un “nichilismo attivo”, inteso alla negazione globale dell’esistente.
Trascinato dall'illusione di diventare attuale, Evola giunse al punto di credere seriamente che, predicando la “negazione di tutto l’esistente” (cioè la contestazione globale) si attuasse “una severa disciplina [tradizionalista!] portata fino agli estremi”.



Le condivisibili critiche dell'on. Sandro Bondi a “fare futuro” hanno il solo difetto di non contemplare lo spaventoso
delirio evoliano a monte del Granata-pensiero. Bondi, purtroppo, non conosce la vicenda della cultura di destra, non sa che il tentativo rautiano di suicidare la destra correndo incontro ai fantasmi della sinistra era dettato dall'equazione Evola=Marcuse. Non si rende conto che Fini è vittima di una sindrome di Stoccolma che lo ha consegnato ai distruttori usciti dalla scuola rautiana.
Quando aprirà gli occhi capirà che il più alto guadagno del centrodestra sarà lasciare per strada Gianfranco Fini, i suoi farneticanti consiglieri e la donzella in libera uscita dall'alcova di Nobilia
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lunedì 8 febbraio 2010

Pucci Cipriani

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Pucci Cipriani scrive come parla: con elegante, toscana naturalezza. E parla come vorrebbero scrivere i pennaruli e gli intellettuali incoronati dalla gloria di quel palcoscenico, che è allestito dalle baronie egemoni e dai quotidiani chic per diffondere la noia ultramoderna e l’oscenità perpetua.
Leggere la prosa vivida del salvatico e non omologabile Cipriani significa gustare i piaceri connessi con la perfetta estraneità alla neolingua, che, nel frattempo, è diventata lingua del pensiero obituario. E godere l’esonero dal concerto cacofonico orchestrato dalle massonerie e dai poteri forti. Ed esultare per il felice esilio dal popolo martellato dal pensiero corretto (corretto da esangui grammatici e da letterati dispeptici).
Nella scorrettissime pagine dell’Altra Toscana gli interpreti del rinnovamento cattolico in atto trovano motivi di conforto e di orgoglio.
Pucci ha ricostruito la splendida (e censurata) vicenda dei militanti cattolici, che, nella più rossa e settaria città d’Italia, prima osarono sfidare la moda laica e progressista (fumigante anche nella Chiesa) poi l’urlo del delirio sessantottino.
La vitalità dell’anticonformismo fiorentino è frutto dell’amore per le sfide: “Firenze è una città laica, anzi laicissima, eppure proprio a Firenze c’è stato in passato e in parte vive tuttora il cattolicesimo più combattivo, forse perché qui da noi la religione non è mai stata tanto una scelta quanto una conquista”.
Opportunamente il conte Neri Capponi rammenta lo stato di illegalità ufficiosa – stato d’infrequentabile sottobosco - in cui versava la sfida cattolica al mondo moderno: “La destra culturale cattolica … non ha mai avuto cittadinanza nell’ambito ufficiale del cattolicesimo fiorentino che si divideva fra un doroteismo culturale privo di idee e una sinistra attiva e pensante, ma che, per il suo orizzontalismo … spesso finiva su posizioni para marxiste (più compiutamente espresse dalla cosiddetta teologia della liberazione)”.
Se non che nella mal sopportata – vergognosa - area del cattolicesimo intransigente circolava la linfa vitale del rinnovamento filosofico e storiografico.
Mentre la Firenze ufficiale si estenuava inseguendo le farfalle dorotee e/o le chimere del socialismo reale, la Firenze proibita, frequentata da Tito Casini, Divo Barsotti, Florido Giantulli, Marco Barsacchi, Piero Bargellini, Neri Capponi, Claudio Leonardi, Adolfo Oxilia, Attilio Mordini, Agostino Greggi, Giuseppe Costamagna, Alessandro Corsinovi, Giovanni Pallanti, Paolo Caucci von Sauken Giovanni d’Aloe, Ivo Butini, Pucci Cipriani e Beppe Bergamaschi, faceva proprio il pensiero degli avanguardisti cattolici (Cornelio Fabro, Michele Federico Sciacca, Tito Centi, Francisco Elias de Tejada, Nicola Petruzzellis, Augusto Del Noce, Marino Gentile, Ennio Innocenti) che hanno liquidato la filosofia illuministica e i suoi derivati.
Nel sottobosco, aveva spazio anche la corrente più verace del revisionismo storico: “Proprio a Firenze le voci controcorrente hanno una cassa di risonanza, per cui non fa meraviglia che in questa città nel 1990 il giovane storico francese Reynald Sécher sia venuto a presentare il suo “Genocidio Vandeano” prima ancora che a Parigi. … Così Anna Pellicciari sarà a Firenze per presentare il suo volume scandaloso: L’Altro Risorgimento che segue il suo primo lavoro, Risorgimento da riscrivere”.
Estranei dalla scena del disastro moderno, i salvatici fiorentini stanno riappropriandosi dell’egemonia culturale, mentre la gongolante sinistra si aggrappa all’effimero mantello della mondanità e ai grotteschi ammennicoli della massoneria.

Attilio Mordini

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Un importante contributo al dibattito sulla metafisica dopo il moderno si deve ad Attilio Mordini, l’autore di un animoso saggio, “Verità del linguaggio” (opera postuma, edita da Giovanni Volpe nel 1978) in cui i ricercatori d’oggi possono trovare un potente incentivo a sciogliere la cultura postmoderna dai lacci sofistici con i quali Heidegger e Gadamer l’hanno legata al pregiudizio irrazionalistico e alla passione per le spericolate avventure della linguistica.
Grazie a Mordini, infatti, la cultura della destra ha cominciato il cammino della libertà dalle suggestioni generate dalle acrobazie intorno alle origini del pensiero e del linguaggio.
All’inizio degli anni Cinquanta, quando Attilio Mordini della Selva intraprese la brillante attività di innovatore culturale, nei circoli della destra italiana, assediati dallo scientismo dichiarato dai progressisti, prevaleva la tendenza ad affermare l’origine metastorica del pensiero e del linguaggio.
La lontana fonte delle teorie per mezzo delle quali si pensava di confutare il progressismo, era il vescovo francese Pierre-Daniel Huet. Convinto che per rettificare l’inclinazione cartesiana a fare del pensiero umano un assoluto fosse necessario dimostrare che la ragione è impotente e non può conoscere nulla di vero, Huet elaborò una dottrina secondo cui la rivelazione primordiale fu l’unica fonte di tutte le verità di ragione.
Nei decenni successivi, i più accreditati teorici del tradizionalismo, rielaborando le tesi di Huet, insistettero sul fatto che il culto della ragione aveva animato la rivoluzione finirono col credere che ragione e rivoluzione fossero una cosa sola.
Al seguito di tale incongruente giudizio, il cammino dei tradizionalisti incontrò il pessimismo antropologico e insieme con esso la suggestione scettica e irrealistica emanata dagli agostiniani avventurosi e infedeli (Malebranche e Gerdil) che avevano tentato inutilmente di raddrizzare le gambe del cogito cartesiano.
La tesi, che riassume la dottrina del tradizionalismo, può esser così formulata: l’uomo attinge le verità metafisiche e morali non adoperando i poteri della ragione ma collegandosi, attraverso il linguaggio, alla rivelazione primordiale.
La vita e l’opera del più importante pensatore tradizionalista, De Bonald, riflettono il compromesso dell’intento controrivoluzionario con le mitologie, che trascinano l’amore per la verità fuori dal solco della ragione.
Bonald si oppose all’ideologia della rivoluzione francese tentando di dare un solido fondamento scientifico al movimento per la restaurazione civile, ma nell’esecuzione del suo progetto culturale ricadde negli errori capitali di Cartesio.
Opportunamente Bonald criticò l’innatismo cartesiano (perché frustrava qualunque tentativo di spiegare l’errore) e il fideismo di Malebranche, fallace “per eccesso di Cristianesimo”. Purtroppo la polemica contro la ragione rivoluzionaria lo indirizzò al paradossale accoglimento di quei miti sulla sapientia veterum (Bacone) e sulla felicità della condizione primordiale(Rousseau) che costituivano i pilastri dell’ideologia rivoluzionaria.
Mordini avendo visto chiaramente la contraddizione in cui la cultura di destra rischiava di cadere, scrisse il saggio “Verità del linguaggio” nell’intento di correggere la polemica contro la ragione avvicinando il tradizionalismo al realismo moderato di San Tommaso.
Di qui l’esposizione di un programma strategico, inteso alla faticosa fondazione di una teologia del linguaggio, idonea a comporre il dissidio che il tradizionalismo aveva suscitato tra l’esagerato e unilaterale sovrannaturalismo attribuito Sant’Agostino e il presunto naturalismo di San Tommaso: “Tra la teologia agostiniana della Grazia e la teologia tomista, fiduciosa nella ragione naturale e nella libertà, a mostrarle l’una all’altra complementari ecco la teologia del linguaggio, della parola che è al tempo stesso una Grazia e un dono naturale da parte di Dio, è la libertà della ragione, la libertas a necessitate nel suo aspetto finalmente positivo”.
La teologia del linguaggio proposta da Mordini non scioglie tutti i nodi intrecciati dalla cultura reazionaria e, pertanto, non può essere accolta come definitiva teoria della tradizione.
Se non che Mordini non presumeva di risolvere tutti i problemi della cultura di destra con una sola opera. “Verità del linguaggio” segna infatti il primo e più difficile passo della strategia culturale della destra sulla via dell’incontro del tradizionalismo con i principi di ragione.

Giano Accame

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Insieme con Primo Siena, Fausto Gianfranceschi e Fausto Belfiori, Giano Accame (Stoccarda 1928) appartiene alla minoranza dei fascisti che hanno capito fin dall’immediato dopoguerra la necessità del rinnovamento.
Sollecitato dal suo maestro, il giurista cattolico Carlo Costamagna, ma non insensibile alle più abbaglianti suggestioni di Evola, Accame assunse una posizione d’avanguardia nella corrente giovanile, che era impegnata ad attuare il progetto (concepito da Arturo Michelini, Nino Tripodi ed Ernesto De Marzio) di adeguare il movimento alle esigenze della competizione democratica.
Non è dunque per un caso che la più intensa e diretta attività politica di Accame si svolge tra il 1952 (anno della tentata operazione Sturzo per la fondazione di un innovativo e destabilizzante cartello di centrodestra alle comunali di Roma) e il 1960, anno della manovra cattoprogressista, che fece cadere il governo costituito da Ferdinando Tambroni con il voto determinate del Msi.
In una prima fase, la attività di Accame fu dedicata alla propaganda nell’università statale di Milano (dove il Fuan, da lui abilmente diretto, ottenne insperati successi elettorali) e alla trattazione, nelle pagine della rivista “Cantiere”, di temi inusuali per l’ambiente. Esplosiva fu, ad esempio, la sua critica dell’assolutismo di Thomas Hobbes, un sistema che implicava la separazione dell’autorità dal consenso e la costruzione dello stato sul fondamento della paura.
Nel 1954, ottenuta la laurea in giurisprudenza, Accame fu sollecitato e indirizzato a professionalizzare e stabilizzare la sua attività pubblicistica, ottenne l’incaricato di dirigere la redazione fiorentina del settimanale “Lo Specchio”. Prima di esser assunto da Mario Tedeschi nella redazione del prestigioso “Borghese”, Accame collaborò anche con il settimanale “Lotta politica” di Augusto De Marsanich, con il mensile “Italia che scrive” di Nicola Francesco Cimmino, e con il quindicinale “Occidente”, nelle cui pagine Ernesto De Marzio e Carlo Costamagna sostenevano la necessità di legittimare, aggiornandola, la cultura politica della destra.
Curiosamente il meglio di sé Accame lo produsse dopo il 1960 quando, cessato ogni motivo di distrazione emergente dalla politica, poté dedicarsi interamente alla più congeniale attività di studioso e organizzatore culturale. Con Gianni Baget Bozzo, Accame partecipò, infatti, alla fondazione della rivista “Lo Stato”, prima, animosa manifestazione della resistenza tradizionalista al progressismo democristiano. In anni segnati dall’isolamento, che preparava la ghettizzazione della destra fuori dal c. d. arco costituzionale, Accame, sostenuto da De Marzio, allarmò i portavoce del salotto buono dimostrando l’insospettata, prodigiosa vitalità, l’alto profilo e l’attitudine ad aggregare della cultura esclusa. Grande risonanza ottenne il primo, spettacolare Incontro romano delle culture, che si svolse nel teatro dei Servi (11 - 14 maggio 1962), cui parteciparono, fra gli altri, il futuro premio Nobel Odysseus Elytis, Gabriel Marcel, Vintila Horia, John Dos Passos, Thomas Molnar e Russel Kirk.
Pinuccio Tatarella avendo progettato il rilancio della destra, volle che la direzione del quotidiano “Il Secolo d’Italia” fosse affidata a un intellettuale di alto profilo e prestigio. La scelta cadde su Accame, che assunse la direzione del quotidiano nel dicembre del 1988.
La direzione di Accame vivacizzò il ragionamento politico missino e diede un forte impulso alla terza pagina del giornale, tanto che l’autorevole Augusto Del Noce non ebbe difficoltà a dichiarare che “Il Secolo d’Italia” era il migliore quotidiano politico stampato in Italia.
In seguito, Accame curò per la Rai alcuni interessanti documentari televisivi dedicati alle intelligenze scomode del Novecento (Ezra Pound, Julius Evola, Italo Balbo, Filippo Tommaso Marinetti ecc.) riscuotendo il plauso della destra e della sinistra anticonformista.
Dopo aver pubblicato una monumentale storia della repubblica per i tipi dell’editore Rizzoli, sta curando un saggio sulla morte dei fascisti.
Innovatore straordinario, Giano Accame ha lasciato un segno indelebile nel profilo della destra italiana. L’ingente apporto di idee elaborate da lui in vista dell’interpretazione e del rinnovamento umanistico del fascismo è innegabile e fa di lui un protagonista della vita italiana contemporanea. Ma più importante è la sua biografia di uomo in piedi sulle rovine.

Gomez Davila, banditore della reazione decadente

(segue)
Non a caso il movimento dei “Viva Maria!” nasce in Toscana in opposizione alla politica “gallicana” del Granduca (assecondato dal vescovo di Pistoia Scipione de' Ricci, che in seguitò aderirà al partito filo-giacobino).
La vera destra, pertanto, combatte la rivoluzione anche o sopra tutto per i suoi non trascurabili aspetti codini e reazionari e rifiuta l’illusoria “reazione” perché il cuore antico, “ghibellino”, del pensiero in parrucca e grembiule - la supremazia del potere secolare sul potere spirituale – si rovescia spontaneamente nella rivoluzione laicista.
Capire l’origine della vera destra significa uscire dai dogmi della volgata storiografica, che un tempo si diceva progressista, e però riconoscere che l’ispirazione cristiana della politica è la sola alternativa al nodo illiberale costituito dalla convergenza dell’assolutismo antico nel totalitarismo moderno (ultimamente trasformato in “totalitarismo della dissoluzione”.
In definitiva: in età moderna il pensiero della vera destra comincia quando sono evidenti la sotterranea parentela di gallicanesimo e giacobinismo e il prolungamento dell’assolutismo nella rivoluzione totalitaria.
A destra non tutti hanno chiara la continuità dell’errore assolutista nell’errore totalitario e perciò alle “mani sapienti” risulta facile seminare le suggestioni che fanno prosperare le idee ultime della modernità nel campo acritico della nostalgia reazionaria.
Nei settori meno intelligenti e avveduti della destra reazionaria si assiste, ultimamente, alla paradossale e sconcertante esplosione di un nichilismo arbitrariamente intitolato all’Antimoderno.
Il nichilismo reazionario, nato nello “splendore” profano del boudoir, tra nobili parrucche e spietati frustini, ultimamente fluttua nei gemiti elegantemente spirituali, stampati sui cartigli color pastello, che la casa surrettizia Adelphi (nomen massonico omen) produce in concorrenza ai dolci sospiri di un cioccolatiere perugino.
L’involuzione spiritualista è un destino, in marcia con il pensiero del nulla dopo che il “flaneur” Nietzsche ha sollevato le carnali dissolutezze sadiane agli astratti voli di Dioniso.
D’Annunzio fece un passo avanti nella direzione dell’esito tombale, celebrando l’amor profano con i sacri paramenti neri. Guido da Verona cantò l’estenuazione totale del dannunzianesimo. Infine uno spiritista degli anni tardi esplorò (a tavolino) i territori dell’oltretomba.
Solo gli anziani ricordano l’antefatto dell’avventura adelphiana: negli anni Trenta, godette di prestigio mondano un freddurista torinese, che firmava, con uno pseudonimo squillante, Pitigrilli.
Scosso da un perpetua ridarella, che gli impediva di prendere sul serio l’esplosione della quisquilia nella filosofia, il freddurista era capace di scrivere duecentoquaranta pagine per dimostrare, in immaginario dibattito con la regina Elena, che il pollo non si porta alla bocca con le mani ma con la forchetta elegante e virtuosa.
Inoltre Pitigrilli pubblicava saggi e racconti di varia intrepidezza esoterica, ad esempio “Cocaina”.
Nel secondo dopoguerra Pitigrilli, ammosciato dalle personali disavventure, si convertì allo spiritismo da tavolino e, anticipando il mistico successo di del mago torinese Rol, di Elémire Zolla e di Roberto Calasso, si diede alla scrittura di articoli medianici, in bilico tra piste di cocaina e polli in punta di forchetta.
(Per gli eventuali curiosi e/o studiosi di cose bizzarre e stravaganti si rammenta che negli anni Cinquanta gli articoli pitigrilleschi apparivano ogni mercoledì nelle pagine romane della “Tribuna illustrata”).
Il cerchio nichilista finalmente si chiude. Pitigrilli dopo Pitrigrilli, e dopo Pitigrilli il contraffatto spiritualismo: pubblicato dall’immancabile Adelphi, è diffuso in Italia, “In margine a un testo implicito”, il capolavoro del colombiano Gómez Davila.
A comando (iniziatico?) il parco degli scriteriati di destra mette il naso di cartone e giubila. L'autore del catechismo neoreazionario “De Rege”, in quarantasette colonne di piombo neodestro, almanacca un tortuoso calendario di mistici viaggi da una costa dell’Atlantico all’altra. Alla fine dell’andirivieni è annunciata la dottrina del Terzo Millennio: ex Bogotà lux.
Nella destra di Gianfranco Fini si presenta una triade senza guinzaglio: l’allucinazione mistica (lux), i viaggi nell’auto-inganno e i viatici colombiani.
Ad ogni modo l’autore di “De Rege” spiega che la dottrina del colombiano, volante da un oceano di saggezza all’altro, è costituita da pensieri brevi e folgoranti (nel testo si parla – con terminologia quasi farmaceutica - di “corroborante ed energetico spirituale”) a margine di una monumentale (trentamila volumi) biblioteca.
Biblioteca monumentale senza dubbio. Pensieri corroboranti ed energetici lo dice il dietista. Chi si esalta con l’apologia demaistriana del boia può esultare anche col prodotto della cultura colombiana. Ma spirituale?
Gómez Davila è un Pitigrilli senza sorriso, un fine dicitore che si è fermato alle soglie medianiche dello spiritismo. I suoi aforismi sono goffe metafore abbaiate in un trombone di latta.
Ad esempio: “Dopo aver screditato la virtù, sentenzia il dotto colombiano, questo secolo è riuscito a screditare anche i vizi. Le perversioni sono diventate parchi suburbani frequentate in famiglia dalle moltitudini domenicali”.
L’immagine è dettata dall’aristocratico disprezzo per la plebe (“la presenza politica delle moltitudini culmina sempre in un’apocalisse infernale” si legge in un altro prezioso aforisma) e dall’ammirazione per i godimenti controrivoluzionari, che si consumano nei giardini esclusivi dell’oligarchia (“Tra i moderni succedanei della religione forse il meno abietto è il vizio”).
Sugli aristocratici succedanei della religione non ci sono dubbi. L’agitìo dei frustini si vede ad occhio nudo. Ma dove si trova la spiritualità?
Nel testo gomezdaviliano appaiono anche ossimori tragicomici, da recitare con la mascella contratta dallo spasimo.
Ad esempio: “Grande scrittore è quello che intinge in inchiostro infernale la penna che strappa dall’ala di un arcangelo”. Passi la stupidità del paragone. Passi il fracasso retorico. Ma chi è l’arcangelo spennato? L’autore del “De Rege”? E il grande scrittore? Fabio Granata? Alessandro Campi?
Dopo gli ossimori il colombiano sciorina pensieri acrobatici, che procurano i brividi del salotto laico di Fini: “Chiamiamo filosofia la logica del discorso che ha per tema l’assurdo. … Dio è la condizione trascendentale dell’assurdità dell’universo. … Dio stesso è l’autore di certe bestemmie”.
Nessun cioccolataio svizzero mescolerebbe i suoi prodotti con simili cascami del repertorio pitigrillesco.
La destra reazionaria, invece, attribuisce al pensatore colombiano la carica ideale di ammiraglio della fede reazionaria, che ritorna in Europa dopo il bagno nella luce di Bogotà.
Tanta ingenuità ha una spiegazione. Infatti l’editore di Gómez Davila è quel Roberto Calasso, che, nelle pagine del quotidiano illuminista “Repubblica”, Pietro Citati, adulatore vaselinoso e scodinzolante, definisce “belva morbida sinuosa, pericolosa, insidiosa … che insegue e odora dovunque … un gatto che con piccoli, tenui colpi di zampa attrae i suoi topi, le sue vittime” (Repubblica, 16 maggio 2001, pag. 49).
Le vittime-topi sono gli intellettuali di Fini, che in un paesaggio terremotato leggono i libri adeplhiani.
Sospendiamo il giudizio sull’immaginazione di Citati: belva morbida e sinuosa potrebbe essere la cantante Milva (detta, per l’appunto, pantera di Goro) piuttosto che il solenne e cupo Calasso. Le parole di Citati tuttavia interrompono il sogno reazionario: lo separano dalla figura dell’angelo spennato per precipitarlo in quella del topo squittente tra le zampe della belva morbida e sinuosa.
Milva o Calasso? Belva o gatto topicida? Il dilemma è insolubile. I corni del dubbio metamorfico si rovesciano sulla scolastica finiana: arcangeli o topi?
Dubbio a parte, nessuna immagine saprebbe definire con maggiore forza comica il dialogo dell’alta scuola iniziatica con gli apprendisti stregoni e gli arcangeli scapigliati a destra

domenica 7 febbraio 2010

Profilo di Attilio Mordini

Un importante contributo al dibattito sulla metafisica dopo il moderno si deve ad Attilio Mordini, l’autore di un animoso saggio, “Verità del linguaggio” (opera postuma, edita da Giovanni Volpe nel 1978) in cui i ricercatori d’oggi possono trovare un potente incentivo a sciogliere la cultura postmoderna dai lacci sofistici con i quali Heidegger e Gadamer l’hanno legata al pregiudizio irrazionalistico e alla passione per le spericolate avventure della linguistica.
Grazie a Mordini, infatti, la cultura della destra ha cominciato il cammino della libertà dalle suggestioni generate dalle acrobazie intorno alle origini del pensiero e del linguaggio.
All’inizio degli anni Cinquanta, quando Attilio Mordini della Selva intraprese la brillante attività di innovatore culturale, nei circoli della destra italiana, assediati dallo scientismo dichiarato dai progressisti, prevaleva la tendenza ad affermare l’origine metastorica del pensiero e del linguaggio.
La lontana fonte delle teorie per mezzo delle quali si pensava di confutare il progressismo, era il vescovo francese Pierre-Daniel Huet. Convinto che per rettificare l’inclinazione cartesiana a fare del pensiero umano un assoluto fosse necessario dimostrare che la ragione è impotente e non può conoscere nulla di vero, Huet elaborò una dottrina secondo cui la rivelazione primordiale fu l’unica fonte di tutte le verità di ragione.
Nei decenni successivi, i più accreditati teorici del tradizionalismo, rielaborando le tesi di Huet, insistettero sul fatto che il culto della ragione aveva animato la rivoluzione finirono col credere che ragione e rivoluzione fossero una cosa sola.
Al seguito di tale incongruente giudizio, il cammino dei tradizionalisti incontrò il pessimismo antropologico e insieme con esso la suggestione scettica e irrealistica emanata dagli agostiniani avventurosi e infedeli (Malebranche e Gerdil) che avevano tentato inutilmente di raddrizzare le gambe del cogito cartesiano.
La tesi, che riassume la dottrina del tradizionalismo, può esser così formulata: l’uomo attinge le verità metafisiche e morali non adoperando i poteri della ragione ma collegandosi, attraverso il linguaggio, alla rivelazione primordiale.
La vita e l’opera del più importante pensatore tradizionalista, De Bonald, riflettono il compromesso dell’intento controrivoluzionario con le mitologie, che trascinano l’amore per la verità fuori dal solco della ragione.
Bonald si oppose all’ideologia della rivoluzione francese tentando di dare un solido fondamento scientifico al movimento per la restaurazione civile, ma nell’esecuzione del suo progetto culturale ricadde negli errori capitali di Cartesio.
Opportunamente Bonald criticò l’innatismo cartesiano (perché frustrava qualunque tentativo di spiegare l’errore) e il fideismo di Malebranche, fallace “per eccesso di Cristianesimo”. Purtroppo la polemica contro la ragione rivoluzionaria lo indirizzò al paradossale accoglimento di quei miti sulla sapientia veterum (Bacone) e sulla felicità della condizione primordiale(Rousseau) che costituivano i pilastri dell’ideologia rivoluzionaria.
Mordini avendo visto chiaramente la contraddizione in cui la cultura di destra rischiava di cadere, scrisse il saggio “Verità del linguaggio” nell’intento di correggere la polemica contro la ragione avvicinando il tradizionalismo al realismo moderato di San Tommaso.
Di qui l’esposizione di un programma strategico, inteso alla faticosa fondazione di una teologia del linguaggio, idonea a comporre il dissidio che il tradizionalismo aveva suscitato tra l’esagerato e unilaterale sovrannaturalismo attribuito Sant’Agostino e il presunto naturalismo di San Tommaso: “Tra la teologia agostiniana della Grazia e la teologia tomista, fiduciosa nella ragione naturale e nella libertà, a mostrarle l’una all’altra complementari ecco la teologia del linguaggio, della parola che è al tempo stesso una Grazia e un dono naturale da parte di Dio, è la libertà della ragione, la libertas a necessitate nel suo aspetto finalmente positivo”.
La teologia del linguaggio proposta da Mordini non scioglie tutti i nodi intrecciati dalla cultura reazionaria e, pertanto, non può essere accolta come definitiva teoria della tradizione.
Se non che Mordini non presumeva di risolvere tutti i problemi della cultura di destra con una sola opera. “Verità del linguaggio” segna infatti il primo e più difficile passo della strategia culturale della destra sulla via dell’incontro del tradizionalismo con i principi di ragione.