domenica 7 febbraio 2010

La modernità dopo il comunismo

(segue)
L’idea di versare il sangue della zizzania nei solchi del futuro ha avviato l’umanità sui violenti sentieri della purificazione, dove il macellaio è misura di tutte le cose, giudice supremo, esecutore finale, direttore d’orchestra, maestro di ballo e ballerino.
Solgenitsin nomina un altro, magnifico fautore della giustizia purificatrice e sacrificale, il poeta Elia Erenburg: rapito dallo splendore del programma comunista esortò i miliziani della felicità a sopprimere tutti gli impuri, anche quelli che non erano ancora nati (op. cit. pag. 418).
Nelle macellerie rivoluzionarie, una musica martellante comandava il perpetuo ballo. Danza progressiva, da destra a sinistra e da sinistra a destra. Minuetto salottiero, discreto come il fruscio della ghigliottina. Tango a scoppio festoso, popolare come il bang della pistola puntata alla nuca del kulako. Valzer della razza pura, con musica leggiadra, come il soffio del gas erogato dai nazisti nella gloriosa camera costruita su brevetto sovietico (op. cit., pag. 354).
Risalita dal fondo in cui l’aveva fatta scendere l’ateologia rivoluzionaria, oggi l’umanità comincia a sperare che sia prossima la fine dell’incubo sanguinario. L’universale condanna della violenza e la grondante condivisione del pensiero buonista sembrano passi avanti sulla via della libertà dall’incubo.
Purtroppo l’uscita dal tunnel umanitario è ancora negata dai guardiani di un inganno avvolgente. Lo storico fallimento dei sovietici ha destituito i profeti della modernità. Marx, ad esempio, è sprofondato in una battuta di Woody Allen. Ma il potere narcotico, che la canzone rivoluzionaria esercitava sui popoli della sinistra, non è per niente diminuito. Il mondo normale è dietro l’angolo del mondo ideologico, ma la giustizia dei sognatori irriducibili ritarda la svolta finale.
L’odio di classe è teoricamente chiuso tra le colonne della tollerante bontà a parole. Ma l’esperienza dell’orrore non ha dissolto le illusioni suscitate dal progetto di attuare in questo mondo la perfetta giustizia. L’apparizione del vero non ha abbattuto l’illusione rovente, l’ha trapiantata nella melassa e nella rugiada. La macelleria si trasferisce nella fabbrica dei pasticcini.
Già esito coerente della furia purificatrice dell’Ottantanove, il comunismo sopravvive lasciandosi trasportare da un popolo di atei buoni, pii e permissivi. Il burroso Veltroni, ad esempio.
Il conto dell’utopia con la storia non è saldato: protetti dalla dolce finzione buonista, gli eredi del disastro sovietico sono ancora all’onor del mondo che sogna.
Metamorfosi dell’ideologia omicida, la commedia dei buoni impedisce il cammino della storia verso il vero superamento dell’alienazione umanitaria, in altre parole vieta l’accesso all’età postmoderna.
Ora la sopravvivenza dell’utopia agli orrori del socialismo reale è sembrata inspiegabile fino a quando una coraggiosa scrittrice, Fiamma Nirestein, ha svelato l’arcano, ossia “Il rapporto gregario degli ebrei con la sinistra”, la sudditanza che ha consentito l’uso dell’Olocausto “ai fini della battaglia del bene contro il male, della sinistra contro la destra. Occorre invece stabilire che il sangue di un bambino ebreo non ha un significato moralmente diverso del sangue di un bambino kulako ” (“Il revisionismo fa bene”, in “Liberal”, n. XXXIV, gennaio 1998).
Se il giudizio della storia non ammette l’appello alla misericordia di Dio e all’umiltà del pensiero umano, l’alta giustizia atterra nel tribunale del risentimento e della memoria accorciata.
Poiché i massacratori russi hanno combattuto contro i massacratori tedeschi, i rottami della perdente ideologia moderna – paradisi artificiali, matrimoni pederastici, furori ecologici e eutanasie - sono assolti e promossi dall’invisibile ma imperioso tribunale della storia.
La sentenza è infine consegnata all’arsenale polemico della sinistra orfana e vuota.
Il fatto che la guerra contro la Germania nazista fu combattuta dopo la consumazione degli enormi delitti sovietici – lo sterminio degli oppositori e l’olocausto di sei milioni di innocenti kulaki - non frena il perdonismo dei sognatori a trazione politicamente corretta.
La vita artificiale dell’ideologia è assicurata. La galoppante folla degli opinionisti irriducibili, può ripetere senza tregua che nazista è un insulto, comunista no.
L’orrore nazista è diventato l’alibi e lo schermo dell’orrore sovietico. L’inganno storicista ha scavato l’ultima trincea della scemante rivoluzione moderna.
Solgenitsin obietta che il regime di Stalin non era migliore di quello di Hitler, e perciò stabilisce l’eguaglianza dei due leviathan, generati nel meriggio del pensiero moderno (“Due secoli insieme Ebrei e russi durante il periodo sovietico”, op. cit. pag. 440).
In consonanza con Hanna Arendt, Sonja Margolina, V. V. Chulghin. Dan Levin, Mikhail Kheifets e con gli altri autori ebrei, che rifiutano la complicità con il neocomunismo, Solgenitsin dichiara che non è possibile uscire dal mondo moderno, ossia spegnere la delittuosa allucinazione marsigliese se prima non si rompe l’incantesimo dialettico, che attribuisce agli stalinisti il titolo di gloriosi massacratori dei massacratori nazisti.
“Come mai, si chiede Solgenitsin. Per trenta quarant’anni gli occhi di una moltitudine di ebrei sono rimasti chiusi sulla vera natura del regime sovietico?” (op. cit., pag. 529).
La risposta si trova in una pagina dell’ardimentosa Hanna Arendt, la quale riconosceva che gli ebrei, nel XX secolo, sono stati attori del gioco storico alla pari con gli altri popoli e perciò concludeva che “La catastrofe abbattutasi su di loro non era solo la conseguenza di macchinazione di nemici del genere umano, ma anche di enormi e fatali errori dello stesso ebraismo. Dei suoi leader e militanti”. (op. cit., pag. 469).
Dan Levin, dal suo canto, non ha avuto difficoltà ad ammettere che “In Russia, l’antisemitismo popolare deriva per molti dal fatto che il popolo russo vede negli ebrei la causa di tutto ciò che la rivoluzione ha fatto soffrire. Gli scrittori americani, in compenso, ebrei ed ex comunisti non vogliono resuscitare le ombre del passato. Orbene, l’oblio del passato è una cosa spaventosa” (op. cit., pag. 530).
Forte di tali inconfutabili testimonianze, Solgenitsin affida a Mikhail Kheifets la soluzione del problema costituito dall’uso strumentale che i postcomunisti fanno della difettosa memoria ebraica: “Il popolo tedesco non si è distolto dal suo spaventoso passato criminale, non ha cercato di far cadere la colpa dell’hitlerismo sugli altri, su degli stranieri ecc.; purificandosi continuamente nel fuoco del pentimento nazionale, ha riuscito a creare uno Stato che, per la prima volta, ha suscitato nei suoi confronti l’ammirazione e la stima dell’umanità. Questa esperienza deve, a mio parere. Diventare un modello per i popoli che hanno partecipato ai crimini del bolscevismo. Tra gli altri gli ebrei” (op. cit., pag. 563).
Il re ideologico è nudo, e gli intrepidi scrittori anticonformisti ne affrettano la deposizione dimostrando che la dialettica storicista del chiodo di sinistra che schiaccia il chiodo di destra – il male comunista è buono, poiché ha combattuto il male nazista – è inaccettabile - anche perché può capovolgersi nel suo esatto contrario, il male nazista è buono perché ha combattuto il male comunista.
Il pensiero moderno stenta ad uscire dal solco dialettico dei macellai marsigliesi in quanto l’autorità morale, che la tragedia dell’Olocausto ha conferito agli ebrei, è usata dagli ebrei apostati per giustificare il comunismo.
Il fantasma della modernità continua ad aggirarsi fra noi perché il pensiero antagonista è calunniato o censurato sistematicamente e ridotto, infine, alla figura del papa di Hitler, mentre l’atrocità dello stalinismo è liquefatta e miracolosamente calata nell’ossimoro Stalin liberatore dei ebrei.
Per uscire dalla grande impostura non esiste altra via che separare le ragioni dell’ebraismo dalle ragioni dell’unione sovietica. Solgenitsin questa via – la via della vera e legittima revisione - la percorre fino in fondo.
In primo luogo Solgenitsin smentisce le leggende intorno al “complotto ebraico”, dimostrando che “la rivoluzione russa è stata fatta da mani russe a causa di una mancanza di discernimento russo”. (op. cit., pag. 47).
Segue la confutazione della tesi sull’inclinazione dell’idealismo ebraico al bolscevismo. A Juda Magnès, secondo il quale è logico che ebrei credano alle promesse del bolscevismo, Solgenitsin risponde “Il giudaismo non è anzitutto riconoscimento dell’unico Dio? Orbene, questo in sé basta a renderlo incompatibile con il bolscevismo, negatore di Dio!” (op. cit., pag. 123).
Dopo aver dimostrato che la ingente partecipazione di ebrei ai crimini della rivoluzione comunista riguardò solamente gli apostati, Solgenitsin sferra il colpo decisivo dimostrando che Stalin, sotto vari pretesti, attuò una sanguinosa persecuzione degli ebrei.
A conferma di quest’affermazione è citata la testimonianza di St. Ivanovic: “Gli ebrei, sotto l’autocrazia [zarista] avevano molto meno che sotto i bolscevichi il diritto di soggiorno, ma molto di più il diritto alla vita…. Le forme di radicamento del socialismo in Russia, applicate dagli estremi confini di Pachekhonia fino a Taskent, sono state particolarmente dure per gli ebrei. Su nessun popolo gli scorpioni del bolscevismo si sono accaniti con più violenza che sugli ebrei” (op. cit., pag. 364-365).
Del mondo moderno, a questo punto, non rimane che un castello di menzogne in aria. Aria estenuata. Aria di vizio.
Ispirata dai principii della tradizione cristiana l’opera revisionista di Solgenitsin ha svelato l’inutilità dell’accanimento terapeutico sulla modernità. Prolungare l’agonia del pensiero ideologico non ha più senso. La cultura tradizionale ha vinto la battaglia delle idee. La rivoluzione è condannata alla vita artificiale e provvisoria del buonismo.

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